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Un nuovo internazionalismo

Pubblicato in Palestinesi, «Il Ponte», anno LXXVI, n. 1.

Noam Chomsky, con le parole conclusive del suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 14 ottobre 20141 annotava: «Quanto al futuro, l’idea comunemente accettata da tutti i fronti – Israele, Palestina, analisti indipendenti, diplomatici – è che vi siano solo due alternative: o la soluzione a due Stati, che gode di un consenso internazionale schiacciante, oppure, se dovesse fallire, uno Stato unico, con Israele ad assumere il controllo della Cisgiordania e i palestinesi pronti a consegnare le chiavi, come si usa dire. In piú di un’occasione i palestinesi si sono espressi a favore di questa eventualità, perché in questo Stato unico governato da Israele essi potrebbero condurre una lotta per i diritti civili sulla falsariga della campagna antiapartheid in Sudafrica. Agli israeliani invece questo scenario non piace, per via del cosiddetto “problema demografico”, ossia l’eccessiva presenza in uno Stato ebraico di non ebrei, che in pochi anni costituirebbero la maggioranza. Queste sono le due alternative ipotizzate da tutti, con pochissime eccezioni.

La mia opinione – da me piú volte espressa, senza però aver convinto nessuno, anche se proverò a convincere voi – è che questo scenario sia una mera illusione. Non sono queste le due opzioni sul tavolo, a mio avviso. Secondo me una delle due alternative è una soluzione a due Stati unanimemente accettata a livello internazionale, sostanzialmente secondo le condizioni del gennaio del 1976. Finora questa opzione ha raccolto il favore, quantomeno a livello informale, di quasi tutti gli Stati, anche della Lega araba, dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, di cui fa parte anche l’Iran, dell’Europa e dell’America latina. L’altra ipotesi, a mio avviso piú realistica, è che Israele continuerà a fare esattamente ciò che fa ora, davanti ai nostri occhi, con l’aiuto, altrettanto palese, degli Stati Uniti. Quello che succede in quella terra non è certo un segreto: basta sfogliare i giornali per capirlo. Israele, come ho detto poc’anzi, si sta impadronendo di quella che loro chiamano Gerusalemme e che in realtà è un’area vastissima, cinque volte piú estesa della Gerusalemme storica, ossia la Grande Gerusalemme, che incorpora un’ampia zona della Cisgiordania, con la relativa confisca e demolizione di numerosi villaggi arabi, da sostituire con gli insediamenti dei coloni. Queste politiche sono doppiamente illegali. Tutti gli insediamenti sono illegali, come già stabilito dal Consiglio di Sicurezza e dal parere della Corte Internazionale di Giustizia; ma gli insediamenti di Gerusalemme sono illegali anche perché violano le esplicite disposizioni del Consiglio di Sicurezza del 1968, votate all’epoca anche dagli Stati Uniti, che vietano qualsiasi modifica allo status di Gerusalemme. Eppure l’espansione va avanti e la Grande Gerusalemme cresce.

Poi ci sono i corridoi che si estendono verso est. Il piú importante è sicuramente quello che corre da Gerusalemme fin quasi a Gerico e attraversa la città israeliana di Ma’ale Adumim tagliando praticamente in due la Cisgiordania. Questo corridoio fu creato prevalentemente sotto l’amministrazione Clinton con l’evidente proposito di spaccare la Cisgiordania; un territorio ancora poco conteso, ma l’obiettivo era quello. Poi ve n’è uno che si spinge verso nord e comprende l’insediamento di Ariel, spaccando quasi in due l’area rimanente; e un altro, sempre verso nord, che si dirige verso la città di Kedumim. Osservando la carta geografica si noterà che questi corridoi sostanzialmente spezzettano la Cisgiordania in tanti cantoni. A prima vista può sembrare che rimanga comunque una larga fetta di territorio, ma non è cosí; la gran parte di quelle terre sono infatti un deserto inabitabile, per di piú isolate dalla già citata valle del Giordano, che costituisce un terzo della terra coltivabile e nella quale Israele si sta espandendo lentamente.

Ufficialmente Israele non sta cercando di acquisirne il controllo, ma porta avanti la strategia adottata da un secolo: avanzare un passo alla volta, in modo che nessuno se ne accorga o faccia finta di non accorgersene, per poi istituire una zona militare. A quel punto gli abitanti palestinesi vanno espulsi perché si tratta di zone militari e non è consentito alcun insediamento; dopo un po’ invece spunta un insediamento militare, per esempio quello di Nahal, poi un altro, finché, presto o tardi, non diventa un insediamento a tutti gli effetti. Nel frattempo si scavano pozzi, si espropria la popolazione, si creano delle “zone verdi” e si adottano le stesse tecniche che dal 1967 a oggi hanno ridotto gli arabi da 300.000 a 60.000 unità. Come ho già spiegato, queste misure accerchiano ancora di piú il territorio rimanente; e non credo che Israele abbia la minima intenzione di accorpare a sé le comunità palestinesi, che non rientrano in questi piani.

Spesso si paragona Israele al Sudafrica, ma è un paragone fuorviante. Il Sudafrica aveva bisogno dei neri, che rappresentavano l’85% dell’intera popolazione, perché costituivano la sua manodopera. I sudafricani dovevano preservare la popolazione di colore, proprio come gli schiavisti devono salvaguardare il loro capitale; cosí fecero di tutto per non perderla, provando addirittura a far accettare i bantustan alla comunità internazionale. Gli israeliani non hanno in serbo simili progetti per i palestinesi, non vogliono avere niente a che fare con loro: se vanno via va bene, e se muoiono va bene lo stesso. Secondo il tipico schema neocoloniale, peraltro, Israele sta creando o consentendo la creazione di un centro per le élites palestinesi a Ramallah, con ristoranti raffinati, bei teatri e cosí via; la stessa cosa si è verificata in tutti i paesi del Terzo Mondo assoggettati a un regime coloniale. È dunque questo il quadro che si prospetta; esso prende forma dinanzi ai nostri occhi. Finora ha funzionato bene, e se dovesse continuare cosí Israele non avrà piú un problema demografico da risolvere. Una volta che queste regioni saranno inglobate, la percentuale di ebrei nel Grande Israele aumenterà e ci saranno pochissimi palestinesi. Tutto questo sta accadendo davanti ai nostri occhi. A mio avviso è questa l’alternativa piú realistica alla soluzione a due Stati, e c’è ogni ragione di credere che continuerà cosí fino a quando gli Stati Uniti l’appoggeranno».

Da questo discorso di Chomsky del 2014 sono passati cinque anni, e lo scenario “realistico” che prospettava si è ampiamente verificato. In uno scenario geopolitico profondamente mutato dal declino dell’unipolarismo statunitense, dal rafforzamento dell’asse Cina-Russia e dalla sua influenza militare ed economica in Medio Oriente, dalla crisi politica dell’Unione europea, la “questione palestinese” sta cambiando paradigma. Non è cambiato il progetto strategico dello Stato ebraico di Israele e il suo obiettivo di breve e lungo periodo: l’espulsione dei palestinesi dai territori della Palestina storica e la soluzione finale della “questione”. Indipendentemente dalle vicende politiche dei governi israeliani, si stanno intensificando le operazioni politico-militari di segmentazione e frantumazione dei Territori occupati attraverso il rafforzamento e la proliferazione degli insediamenti coloniali: l’annunciato raddoppio della popolazione dei coloni nella città cisgiordana di Al Khalil (Hebron) è solo l’ultimo episodio di questo processo. Nello scenario geopolitico mediorientale, Israele continua a svolgere il suo ruolo attivo di testa di ponte degli interessi strategici occidentali, intervenendo anche militarmente nella guerra siriana e, da minacciosa potenza nucleare, in una possibile guerra con l’Iran. Contando sul progressivo indebolimento dell’Onu e sulla crisi conclamata del diritto internazionale, Israele sembra avere mano libera per liquidare con metodo e tempi propri la contraddizione palestinese, riducendola a fattore marginale e residuale. L’esercito e l’economia sono i due strumenti principali di “pulizia etnica”: repressione e controllo nelle “riserve”, per rendere impossibile la vita quotidiana dei nuovi “indiani” di Sion, per costringerli a un nuovo esodo, a cercare scampo nell’emigrazione (sta crescendo il numero di giovani palestinesi in fuga da Gaza per raggiungere l’Europa). Tutto questo è normale nello scenario internazionale del neoliberismo.

Ma proprio di questo si tratta. In questo scenario è oggi pienamente inserita la questione palestinese, come insiste Daria Carminati nei suoi interventi in questo numero. E sul cambiamento di “paradigma” insistono Jamil Hilal e Joseph Massad, sulla nuova centralità del pensiero critico “ricominciando” da Edward Said, Stefano Mauro a proposito della resistenza armata, Cecilia Dalla Negra sui movimenti delle donne, Olga Solombrino sulle resistenze “virtuali” nell’età di Internet, Chiara Cruciati sui comitati popolari nonviolenti, Ruba Salih sulla situazione dei rifugiati in Libano, Wasim Dahmash sulla letteratura, Diana Carminati ed Enrico Bartolomei sul colonialismo di insediamento, Riccardo Bocco sulla rivisitazione della storia attraverso il cinema, Sandi Hilal sulle nuove pratiche di arte contemporanea, Sunaina Maira e Magid Shihade sulla musica ribelle delle band giovanili, e altri ancora. Oggi i “palestinesi”, prigionieri nei Territori occupati e a Gaza, rifugiati in altri paesi del Medio Oriente, dispersi in Occidente, non solo “sono ancora qui” e resistono facendo forza sulle loro identità storiche e “nomadi”, ma vivono esperienze di autonomia e autorganizzazione del tutto interni – con le loro irriducibili specificità storiche e culturali – a quel vasto movimento internazionale, politico e culturale, che si va mobilitando per un’alternativa globale al capitalismo neoliberista e alle sue imprese distruttive, per aprire la storia a nuove realtà liberate da ogni forma di oppressione e schiavitú. La crisi dei sistemi politici attuali, in Occidente come in Palestina, è determinata da nuovi bisogni di liberazione; in Palestina, porta i segni evidenti di questi processi il nuovo movimento Tal’at di cui scrive in questo numero Cecilia Dalla Negra; e su questi temi si sta interrogando il collettivo internazionale di produzione teorica Al Shabaka, di cui fanno parte alcuni collaboratori di questo numero.

Come parlare della Palestina di oggi? “Che fare” per sostenere la lotta di liberazione dei palestinesi dall’occupazione israeliana e da molto altro? La prima domanda, non a caso oggetto di un recente «colloquio in rete» di Al Shabaka, riguarda principalmente i palestinesi, studiosi e militanti; a noi il compito di saperli ascoltare decolonizzando il nostro sguardo. La seconda ci riguarda direttamente. Dagli anni sessanta a oggi, il tema della Palestina (e in generale dei movimenti di liberazione in tutto il mondo) è stato centrale nella cultura politica e nell’impegno organizzativo della sinistra italiana e non solo, e da allora si sono sviluppati molti percorsi di solidarietà, cooperazione, militanza politica. Erede di questa lunga tradizione di impegno, il movimento internazionale Bds, nato nel 2005 sulla base di un appello della società civile palestinese, tiene aperta in Occidente la questione palestinese con campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni tese soprattutto a isolare politicamente, nell’opinione pubblica internazionale, le politiche e le pratiche dei governi dello Stato israeliano; le stesse difficoltà che il movimento Bds incontra in numerosi paesi occidentali diventano oggetto di controinformazione e iniziativa politica. E, anche se i governi e le istituzioni occidentali non intervengono sul terreno del diritto internazionale con opportune “sanzioni”, girando la testa dall’altra parte, le pressioni per il “boicottaggio” delle politiche coloniali e repressive di Israele e per il “disinvestimento” di imprese occidentali dall’economia israeliana sono forse piú efficaci – sull’opinione pubblica internazionale – delle loro conseguenze pratiche. Inoltre le campagne Bds tengono conto, ed è un loro merito, dell’intreccio tra “questione palestinese” e “questione israeliana”. I processi di liberazione dalla tragedia del colonialismo sionista coinvolgono infatti sia la popolazione palestinese sia quella ebraica, ed è importante aprire contraddizioni di classe nella stessa società israeliana in un momento di difficoltà delle sue rappresentanze politiche.

Scrive Michele Giorgio che la questione palestinese sta scomparendo dalle agende della diplomazia internazionale. È vero, ma è altrettanto vero (e Michele Giorgio e Chiara Cruciati ce ne informano puntualmente nelle loro corrispondenze per «il manifesto» e altri giornali) che i palestinesi, nelle diverse condizioni in cui vivono, sono «ancora qui» e le loro presenze sono in una fase di transizione che vede emergere nuove soggettività e nuove prospettive, come in questo momento in tutto il mondo.

Si è già detto nella nota introduttiva a questo numero speciale, ma, per insistere, lo ripeto: forte delle sue diverse esperienze storiche e attuali, quello palestinese costituisce oggi un laboratorio centrale nell’attuale fase di necessario e radicale cambiamento dei nostri modi di vedere la storia, i rapporti di potere, la pace e la guerra, gli imperialismi, i collaborazionismi, le subalternità ai poteri di pochi contro i molti. Da dove nasce questo laboratorio di nuova consapevolezza? Certamente dalla durezza di una vita quotidiana impossibile, in condizioni di pulizia etnica e apartheid nei territori occupati e a Gaza, nei campi profughi nei vari paesi del Medio Oriente, nello stigma del “palestinese” sconfitto nei media occidentali; e queste condizioni sono reali.

Ma la tradizionale resistenza dei palestinesi, vittime di una storia profondamente ingiusta e tutta occidentale, ha oggi un suo doppio: la potenziale autoliberazione dai vincoli di un confronto ineguale e speculare con un potente carnefice prigioniero del suo ruolo di carceriere, attuando pratiche di autorganizzazione e autonomia che costruiscano una nuova forza sociale e una nuova narrazione del proprio percorso di liberazione, su un terreno proprio e con forti relazioni con quei movimenti che in tutto il mondo stanno reagendo alle catastrofi di una storia che gronda sangue e sta distruggendo il pianeta. Su questo terreno i palestinesi possono oggi svolgere un ruolo di avanguardia, forti della loro cognizione del tragico e della loro vitale necessità di una vera liberazione, non solo dall’occupazione israeliana.

A questo laboratorio di liberazione, anche della nostra, dobbiamo guardare con grande attenzione, consapevoli che la crisi internazionale del capitalismo neoliberista sta producendo ovunque i suoi anticorpi: quello che accade in Palestina ci riguarda direttamente. Con questo numero monografico abbiamo voluto aprire un “cantiere” di informazione, studio e proposta politica, che rimarrà aperto, accogliendo altri contributi nei prossimi numeri ordinari della rivista.

Lanfranco Binni



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