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Morte e letteratura

Quando la Morte si fa Verbo negli aridi deserti della Palestina, l'eroica sfida di Gilgamesh alla mortalità ha già fondato una tradizione letteraria: la tradizione dell'Epopea di Gilgamesh che, sviluppatasi in Mesopotamia (2000-600 a.C.), agli albori della scrittura, ha inaugurato i temi della ricerca vana dell'immortalità e del viaggio nelle lande desolate dell'oltretomba, a trovare il nulla. Altre tradizioni, contemporanee, sono già strutturate ad Oriente: nei Veda indiani, in particolare nelle Upanishad, il mistero della morte, “il segreto di tutti i segreti”, è affrontato in una prospettiva destinata a riprodursi nei secoli: insegna Yama, il dio dei morti, che nessuno nasce e nessuno muore, che l'anima è immortale nella “caverna” profonda dell'essere, e le esistenze sono solo esperienze in un ciclo ininterrotto di reincarnazioni delle anime. Nella cultura egizia, le formule magico-funerarie del Libro dei morti istituiscono una naturale e rassicurante continuità tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, e la morte è l'inizio di un nuovo viaggio. La voce imperiosa del Dio ebraico, nell'Antico Testamento, libro guerriero di pastori erranti, segna una rottura in una lunga tradizione di riti di passaggio che non avevano trasformato in terrore l'indicibile, la sorpresa, il mistero: l'albero della conoscenza diventa l'albero della morte, e la Morte, il cui potere è brandito come una clava contro la progenie sciagurata di Eva e di Adamo, diventa il sigillo di una colpa da espiare in eterno, e gli umani nati di terra (in latino sarà humus) alla terra ritorneranno nei secoli dei secoli, senza speranza di riscatto. La sapienza greca, sulla linea della ricerca filosofica, batte altre piste. Le prospettive idealistiche (Platone: Fedone, Fedro) e materialistiche (Democrito, Epicuro) affrontano la morte come terreno di consapevolezza, questa sì immortale in Aristotele, di scelte etiche individuali, per vivere la vita nella sua complessità, che assume il morire come limite e confine naturale. I poemi omerici dell'VIII sec. a.C., l'Iliade, l'Odissea, rileggono in questa prospettiva antichi riti di passaggio tra vita e morte, tra viventi e ombre, rilanciandoli nell'area culturale greco-latina dei secoli successivi: il viaggio nel mondo dei morti, la “bella morte” come sintesi di una vita vissuta eroicamente o semplicemente con dignità, la morte stoica di Socrate, la meditazione sulla caducità della vita umana e sul limite naturale del morire, entrano a far parte dell'immaginario della cultura occidentale e diventano temi ricorrenti della tragedia e della poesia greca e latina, dalle elegie agli epitaffi, agli epigrammi, alla poetica materialistica di Lucrezio nel De rerum natura, nel sec. I a.C., alle Epistole stoiche di Seneca nel sec. I a.C., al poema epico (l'Eneide di Virgilio, sec. I a.C.), alle Meditazioni di Marco Aurelio e alle variazioni satiriche dei Dialoghi dei morti di Luciano, nel sec. II d.C.
Con questo contesto culturale si confronta il Nuovo Testamento, il libro della rivoluzione culturale cristiana: la Morte biblica, pietra tombale definitiva, si apre al suo doppio, la resurrezione, non solo delle anime ma anche dei corpi; la speranza nella giustizia e nella liberazione diventa l'alternativa all'inferno dell'esistenza e alla punizione dei dannati della colpa. La vita cristiana sarà premiata. La morte può essere vinta. Nei secoli successivi, la teologia del cattolicesimo al potere nell'Occidente cristiano ri-assume le “figure” minacciose e terrificanti della concezione vetero-testamentaria: la Morte acquisisce un potere totale sulla vita dei mortali, ne regola e scandisce le società, le relazioni interpersonali, i percorsi individuali di salvezza. Nella terza religione monoteistica, l'Islam, l'interrogazione sulla morte è delegata alla potenza di Dio: i mortali devono prepararsi al passaggio nell'aldilà, dove il Paradiso (il giardino fiorito, pari-daeza, della tradizione persiana) attende i virtuosi, ma - come scriverà il poeta persiano Jalal al-Dîn Rûmi (1207-1273) - “Tutto ciò che può essere pensato è perituro, ciò che non entra in nessun pensiero è Dio”; il Corano tramanderà questa concezione che sottrae ai vivi un confronto diretto con la morte.
In Occidente, la letteratura cristiana apocalittica, dall'Apocalissi di Pietro (ca. 125-150 d.C.) a quella di Paolo (ca. 250), fino alla grande sintesi poetica della Divina Commedia di Dante Alighieri, nel sec. XIII, istituisce definitivamente la Morte come punizione ineluttabile del peccato originale: ai peccatori è riservato l'Inferno, che non è più il diafano oltretomba in cui vagano sperdute le ombre della tradizione greco-latina, ma diventa la drammatizzazione didattica e orrifica delle punizioni che aspettano i viventi. Morire peccatori, e le tipologie sono accuratamente enumerate, significa consegnare l'anima al Diavolo, precipitare nel fuoco eterno dell'Inferno. “Memento mori”, ricordati che devi morire, preparati alla morte, diventa il messaggio principale della teologia cattolica e delle pratiche religiose popolari. La Morte cattolica diventa scenario, attore e regista di una potente drammaturgia che produce paura. La nera Signora, armata di falce, colpisce all'improvviso: chi non si è preparato è irrimediabilmente perduto. L'aldilà non è più fonte di consolazione e di speranza, ma di terrore. Soprattutto dal XII secolo, con un grande sviluppo nel terribile secolo XIV (pestilenze, carestie, rivolte), la letteratura medievale e l'iconografia artistica si nutrono di questi temi che ispirano un ricco repertorio di generi: le artes moriendi, le danze macabre (i Versi della morte di Hélinant de Froidmont, alla fine del sec. XII) con i loro spettacoli di corruzione della bellezza, i trionfi della morte, le orazioni funebri, i testamenti, di cui quello di Villon (ca. 1460) è una variante macabra e ironica. Con questa possente e diffusa tradizione entra in conflitto, in Occidente, nei secoli XV-XVI, la nuova cultura del Rinascimento. Il senso della morte e l'amore per la vita vengono declinati secondo la nuova sintassi del pensiero umanistico, anticipata in Italia - nel clima della riscoperta della cultura classica greco-romana - dalla poesia di Petrarca: nei Trionfi (1340-1374) la morte trionfa sull'amore, ma sulla morte trionfano la fama e il tempo. La consapevolezza della morte origina nuovi percorsi di “dignità” borghese (Discorso sulla dignità dell'uomo di Pico della Mirandola), di inclusione della morte nello spazio di una vita da vivere attivamente. “Fare della filosofia significa imparare a morire”, scrive Montaigne nei Saggi: il pensiero della morte non deve essere rimosso, deve anzi accompagnarci quotidianamente, saper morire è la sola condizione per saper vivere, è una condizione di libertà, la morte è semplicemente la fine della vita e non il suo fine. Su questa linea si produce nei secoli XVII-XVIII una progressiva contrapposizione tra la concezione cattolica della morte (la cultura del macabro e del terrore - esaltata nel Seicento controriformista e barocco, glorificata nei Sermoni di Bossuet - rimarrà centrale nelle strategie della Chiesa cattolica nei secoli successivi, fino al Concilio Vaticano II) e il pensiero critico del razionalismo seicentesco (Descartes, Leibniz), del libertinismo (Bayle) e dell'illuminismo (Voltaire, Diderot). Il secolo dei Lumi della ragione assume la questione della morte come terreno fondamentale di lotta contro l'oscurantismo; con i filosofi materialisti (La Mettrie, D'Holbach) la paura della morte viene accuratamente decostruita, e consegnata al repertorio degli inganni religiosi. La morte viene invece assunta come dato di analisi delle dinamiche sociali e del comportamento umano, come terreno di incursioni negli inferni individuali (Sade) per scoprire la cruda “verità”.
Preannunciati dalle meditazioni sepolcrali dei poeti preromantici inglesi Parnell (Composizione notturna sulla morte), Young (Il lamento, ovvero pensieri notturni sulla vita, la morte e l'immortalità), Gray (Elegia scritta in un cimitero di campagna), e dalla possente immaginazione degli scrittori del romanzo nero (Walpole, Lewis), i poeti-filosofi del romanticismo di inizio Ottocento aprono una fase nuova nella concezione della morte in Occidente. Convivere con la morte (Hegel la definirà il “padrone assoluto”), sentirne la presenza nella complessità multidimensionale dell'esistenza, diventa terreno di ricerca, di sfida, di fascinazione, per poeti come Novalis, Shelley, Hölderlin, Vigny, Hugo, Aloysius Bertrand, Baudelaire, Lautréamont. Liberata da antichi stereotipi religiosi, la riflessione filosofica e letteraria sulle tematiche della morte prosegue per tutto l'Ottocento aprendo nuovi confronti sul terreno dell'opposizione tra razionalismo e irrazionalismo, tra positivismo e spiritismo, fino al simbolismo di primo Novecento. La morte viene indagata nelle sue componenti orrifiche nella letteratura fantastica e del mistero (fantasmi, morti apparenti, sepolti vivi, i racconti di Le Fanu in Francia e di Poe in Inghilterra), nei suoi rapporti con la memoria (in Italia I sepolcri di Foscolo, le canzoni sepolcrali di Leopardi), con la libertà individuale (I dolori del giovane Werther di Goethe), con il fato (Melmoth di Maturin, La pelle di Zigrino di Balzac), con i ruoli sociali (La morte di Ivan Illich di Tolstoj), nella sua realtà filosofica e simbolica (Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, i Pensieri sulla morte di Feuerbach, La morte di Maeterlinck), nella sua storicità (La tentazioni di Sant'Antonio di Flaubert). Su questa linea di riconduzione assoluta della morte alla sfera umana proseguirà l'elaborazione dei filosofi esistenzialisti, da Kirkegaard a Heidegger, a Sartre, mentre le nuove prospettive di ricerca aperte dalla psicanalisi freudiana all'inizio del Novecento sull'intreccio tra Eros e Thanatos, tra pulsioni di vita e di morte, rendono sempre più complesso il campo semantico della “morte”, nel suo intreccio tra percorsi individuali e contesti storici e sociali del “secolo breve” (le guerre mondiali, Aushwitz, la morte nucleare).
“Pensiero dominante” nelle poetiche di autori centrali del Novecento (da Michelstaedter a Joyce, da Rilke a Masters, da Bataille a Beckett, da Malraux a Camus, da Primo Levi a Simone de Beauvoir, da Thomas Mann a Saramago), le tematiche della morte - dagli anni '70 oggetto di importanti studi antropologici (Thomas), culturali (Ariès, Vovelle, Choron), sociologici (Elias, Bauman) ed epistemologici (Baudrillard, Derrida, Butler) - stanno oggi conoscendo una profonda mutazione nelle società postindustriali, nelle culture postmoderne. La morte si fa “oscena”, si fa malattia da medicalizzare, in Occidente sta perdendo senso, è oggetto di rimozione ed espulsione, incidente inatteso ed imprevisto, da non prevedere, da non preparare, da nascondere. La barbarie anticulturale delle ideologie consumistiche dell'eterno presente non accetta confronti improduttivi con il “padrone assoluto”. E' un suicidio culturale ed esistenziale, “ma il senso della morte - denuncia Ottieri nel suo De Morte (1997) - è il più indispensabile al senso della vita”. E la letteratura non è forse il vitale “dominio dei morti” (Harrison), come già ci ha insegnato Blanchot nello Spazio letterario (1955)? La morte della morte non è data. Ma neppure la vita.

(voce della nuova edizione della Garzantina di Letteratura, Milano, 2007)


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