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La ricostruzione

Pubblicato da «Il Ponte», anno LXXVI, n. 4, luglio-agosto 2020.

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Per grazia ricevuta?

L’esito monetario per ora virtuale delle “quattro giornate di Bruxelles”, imprevedibilmente molto generoso con l’Italia, sta producendo nel sistema politico italiano pulsioni predatorie vecchie e nuove, convulsioni e trasformismi. La nuova corsa all’oro mobilita i tradizionali istinti animali dei gruppi di potere esperti in pratiche spartitorie, corruttive e criminali. La partita, in nome di una “solidale” Europa dei mercati, rimette in gioco anche i replicanti di stagioni sconfitte, da Berlusconi a Prodi a Renzi, alla ricerca di una nuova verginità “responsabile”.

Poiché tutto è processo, l’Unione europea a trazione tedesca rafforzata ha semplicemente preso tempo: la “montagna di soldi” promessa all’Italia seguirà i percorsi politici, negoziali e procedurali, dell’Unione; di fronte a una profonda crisi di sistema aggravata dal Covid-19 e dai cambiamenti climatici, e alla necessità di intervenire sui modelli di sviluppo dei vari Stati del continente mantenendo il controllo sulle economie e sui mercati nazionali, l’Unione ha allentato le briglie delle catene di comando: la crisi va affrontata subito, e il 2021, quando entreranno in vigore i provvedimenti “solidali”, è molto lontano. Prima della metà del prossimo anno, numerosi passaggi: negoziazioni, valutazioni dei progetti d’impiego delle risorse concesse, nuovi rapporti di forza. Le briglie si allentano anche sui “valori” retorici dello “Stato di diritto” (Ungheria, Polonia), e tanto più sui privilegi fiscali dei governi “frugali” del Nord.

Il governo italiano, forte dei suoi 35.000 morti da Covid-19, ha sicuramente svolto un ruolo attivo nei negoziati di Bruxelles, presentandosi come paladino di un nuovo europeismo non rigidamente vincolato dalle regole di quel “patto di stabilità” che aveva strangolato la Grecia, ma la partita è ancora tutta da giocare. In attesa di valutare i progetti italiani finanziabili, l’Unione “porta a casa” la fedeltà di un paese anomalo costretto ad abiurare la sua diversità in nome di una nuova affidabilità. Fedeltà anche alla Nato e alle sue strategie nel continente europeo condivise dalla Germania; e l’attuale governo italiano si dichiara ripetutamente atlantista, amico a oltranza dell’attuale governo degli Stati Uniti d’America.

L’anomalia italiana

Per l’Unione europea e per gli Stati Uniti d’America, l’Italia è un paese da stabilizzare e modernizzare.

La crisi economica del 2019 ha aggravato quella irrisolta del 2008, collassando apparati produttivi e consumi. Le straordinarie iniezioni di liquidità della Bce non incidono sugli assetti di sistema. Un tracollo dell’economia italiana, dopo la Brexit, comporterebbe l’implosione dell’Unione europea. Servono “riforme” radicali con obiettivi di “crescita” e nuova stabilità. Le ricette sono quelle tradizionali: riduzione del debito, precarizzazione e flessibilità del lavoro, investimenti pubblici a vantaggio delle grandi imprese, riduzione della forza contrattuale dei lavoratori-consumatori. Anche gli Stati Uniti d’America hanno bisogno di un’Italia stabile e fedele alle strategie atlantiche, in una fase di duro confronto economico, politico e militare dell’amministrazione Trump con la Cina; la propaganda mediatica contro l’“impero del male”, il mercato degli armamenti e il potenziamento in corso delle basi militari sul territorio italiano sono gli strumenti principali della geopolitica statunitense.

L’Italia è un paese instabile, forte delle sue “anomalie”. Le più importanti, fondative: le tradizioni del socialismo, dell’anarchismo e del comunismo tra Ottocento e Novecento; l’antifascismo e la Resistenza; i movimenti degli studenti e degli operai negli anni sessanta e settanta; le lotte per i diritti civili degli anni settanta; i femminismi; i movimenti ambientalisti e antimilitaristi. Nel paese la cui anomalia più consistente è stata la presenza di una delle sinistre più forti e articolate a livello europeo, tutte queste esperienze e tradizioni hanno continuato a operare nonostante le involuzioni di un sistema politico sempre più separato dagli interessi generali. Contro quella “politica” di ristretti gruppi di potere l’onda lunga dei movimenti di opinione e di cittadinanza attiva che ha scardinato il sistema politico alle elezioni del 2013 e del 2018, battendo il referendum anticostituzionale del 2016, continua a esercitare costanti pressioni dal basso. Il sistema politico, oggi rappresentato da una maggioranza parlamentare eterogenea in cui agiscono culture e interessi profondamente diversi, e da un’opposizione di destra che sopravvive grazie ai media di servizio, si limita a gestire amministrativamente misure sociali emergenziali e inefficaci, rese ardue dalla burocrazia della pubblica amministrazione e oggetto di continue negoziazioni tra Stato centrale e satrapie regionali. L’attuale non-governo, il migliore possibile perché incapace di prendere decisioni risolutive (il caso della vicenda di Autostrade per l’Italia è emblematico), si guarda bene dal turbare “l’ordine costituito” degli interessi di potere.

La crisi pandemica, irrisolta a livello globale e oggi itinerante tra i continenti, in Italia ha messo a nudo le devastazioni neoliberiste del sistema sanitario, della scuola pubblica, della pubblica amministrazione e in generale dell’apparato statale, delle relazioni tra Stato centrale ed enti locali. Non ha risparmiato un sistema produttivo basato sulle piccole e medie industrie. È riemersa, nell’opinione pubblica e nelle richieste di provvidenze emergenziali, la centralità dello “Stato”, uno Stato disastrato e fatto a pezzi da decenni di caotica gestione e di svuotamento delle sue prerogative costituzionali. A questo Stato sono oggi chieste risposte che non è in grado di dare, e i prossimi mesi saranno drammatici.

Più Stato, meno Stato, quale Stato

Quale Stato? è la questione fondamentale. Uno Stato da ricostruire, ormai lontano dai contenuti programmatici della Costituzione del 1948. Dall’“alto”, dal “basso”, trasversalmente. Alto e basso sono sicuramente categorie generiche ma crudamente reali. Da un punto di vista sociologico, nelle catene di comando della piramide sociale italiana sono collocati in alto i gruppi di potere economico e finanziario, le confraternite dei partiti di sistema vecchi e nuovi, gli alti burocrati dello Stato, i “decisori” che eseguono mandati di rilievo internazionale; in basso, la base sociale oggi implementata da una rapida proletarizzazione dei ceti medi. La tradizionale distanza tra alto e basso, tra ricchi e poveri, tra chi ha e chi non ha, sta assumendo caratteri ferocemente malthusiani. Da un punto di vista più complesso e attento ai processi culturali e politici, l’attuale declinazione alto/basso si presenta sempre più dinamica e contraddittoria: in una fase di crisi profonda e irreversibile del sistema politico, diventano centrali le soggettività e le responsabilità dei singoli, liberi per scelta o per necessità dai vincoli di appartenenze non più sostenibili.

Guardiamo avanti. Nei primi mesi del 1943 Emilio Lussu riceve in Francia la notizia che in Italia si è costituito il Partito d’Azione e ne legge il programma, che trova tipico di una “borghesia radicale” che vede la sola prospettiva della sostituzione di una nuova classe dirigente a quella fascista, ai vertici di uno Stato da ricostruire. Lussu racconterà in Diplomazia clandestina («Il Ponte», nn. 1, 2 e 3, gennaio, febbraio e marzo 1955, poi nei Quaderni del Ponte, Firenze, La Nuova Italia, 1956): «Mi detti subito a scrivere un opuscoletto, La ricostruzione dello Stato, che finito di stampare clandestinamente in Marsiglia, a luglio, passò in Italia con Joyce, nell’agosto, e fu in seguito ristampato più volte a Roma e nell’Alta Italia, durante la Resistenza». L’opuscolo porta la data del giugno 1943 e oppone al programma “elitario” del Pd’A una prospettiva radicalmente rivoluzionaria e socialista che rovesci la piramide sociale e ricostruisca lo Stato su basi completamente nuove. In sedici brevi capitoli, con una scrittura sintetica dettata dall’urgenza dell’azione politica, Lussu delinea gli obiettivi e le caratteristiche di un nuovo Stato che superi radicalmente il fascismo e il liberalismo prefascista. Riproduco i primi due capitoli, il sesto e l’ottavo1. Ci riguardano, con il dovuto senso della storia.

I

Vent’anni di regime fascista hanno dimostrato a che punto può una dittatura abilmente organizzata stroncare iniziative autonome di individui e di gruppi e asservire la vita di una nazione. Il fascismo segna il trionfo della violenza come forza generatrice di consensi. Operai, contadini, artigiani, piccola e media borghesia, tecnici, intellettuali, hanno, gli uni dopo gli altri, capitolato di fronte alla forza. Solo una ristretta minoranza si è ribellata a servire: ma ha dovuto pagare con la morte e con la persecuzione implacabile il suo atto di fede.

Questo spiega perché, dopo tre anni di guerra, che gli avvenimenti presentano all’universalità degli italiani come la certa disfatta e la rovina del paese, non si è avuta ancora una positiva reazione popolare.

È che il fascismo ha impedito il crearsi di correnti politiche talmente potenti da essere in grado di agitare le masse e condurle all’insurrezione nazionale. La fame, i sacrifizi, i bombardamenti col massacro dei civili e la distruzione delle città, la serie crescente di scacchi militari non sono sufficienti da sé soli, a far levare la bandiera della rivolta. Senza un’avanguardia politica, capace di far passare fra le sofferenze delle masse un ideale superiore di liberazione, non v’è insurrezione possibile sotto un regime di polizia. Quest’avanguardia comincia solo ora a formarsi, ancora senza coesione, disparata, i quadri dispersi, ed è da temere che la disfatta militare del regime preceda le sue effettive possibilità d’azione insurrezionale. Se così fosse, si creerebbe una crisi che peserebbe su tutto lo sviluppo politico nazionale del dopo guerra, parendo ben difficile che l’occupazione anglo-americana del suolo nazionale possa permettere una libera azione politica.

Non è facile pertanto vedere nel buio di domani, ché solo le forze politiche che agiscono creano l’avvenire. Nell’ora presente, le caratteristiche sono l’attività di pochi, l’attesismo dei più e il disorientamento generale. Ma ciascuno, nei limiti delle sue possibilità, ha il dovere di contribuire a un’opera di chiarificazione.

II

Il fascismo non è, come alcuni liberali tradizionalisti amano credere, una svolta improvvisa nel corso della civiltà del nostro paese. Né, come la letteratura degli esuli era portata a sostenere di fronte a un pubblico straniero, un male che il popolo italiano non meritava. Il fascismo non è caduto dall’alto, come un bolide. Esso è stato il prodotto naturale della civiltà politica italiana, una malattia del popolo italiano, formatasi nel suo organismo e nel suo sangue. È stato la conseguenza del passato.

Se su questa critica fondamentale non si concorda, è difficile pensare si possa essere d’accordo nel ricostruire l’Italia.

Il fascismo è il prodotto delle forze reazionarie che hanno costantemente influenzato l’Italia fin dalla sua unità, malgrado le aspirazioni liberali. Mussolini è la ripetizione riveduta e migliorata ed aggiornata del fenomeno Crispi alla fine del secolo scorso. Vittorio Emanuele III è la ripetizione, anch’essa aggiornata, di re Umberto. La reazione e la monarchia non si sono smentite. Il re si sentiva veramente padrone in casa sua. In altri paesi, altri re hanno giocato la testa, e pagato della medesima, l’attentato alle libertà popolari. Da noi, la decadenza e la corruzione delle forze politiche della democrazia hanno creato l’ambiente favorevole. Come uno squadrone bene ordinato di corazzieri, i grandi dignitari dello stato, e i grandi burocrati, e i prefetti, e consiglieri provinciali, e sindaci e consiglieri municipali, tutti liberali e democratici, hanno accolto il colpo di stato monarchico che ha preso il vistoso nome di «marcia su Roma» al grido fatidico di «Viva il Re!». Non è per un accidente inspiegabile che il capo incontestato del liberalismo italiano, anzi la sua più fedele incarnazione, Giovanni Giolitti, è stato la levatrice patentata del fascismo. Lo stesso partito del proletariato e dei lavoratori italiani, il solo cui, in ultima istanza, spettava, storicamente, il compito di spazzare dalle piazze le camicie nere e le azzurre, era uscito dai trionfi elettorali del dopo-guerra, idropico, diviso e senza senno politico. E fu incapace all’urto.

Il fascismo è l’ortica spuntata dalle rovine della democrazia italiana.

Le responsabilità sono generali, in rapporto alle iniziative, alle complicità o alle deficienze di ciascuno. Azione positiva quella delle forze reazionarie che hanno pagato lo squadrismo e finanziato la grande avventura, in testa la borghesia industriale e rurale; azione negativa quella della democrazia decadente. Esse investono tutta la vita dello stato nel dopoguerra.

Il fascismo va debitore del suo trionfo e a quanti l’hanno sostenuto per arrivare al potere, e a quanti, arrivato al potere, l’hanno difeso, consolidato e glorificato, sì da farlo apparire come l’espressione storica delle aspirazioni nazionali. Fra questi ultimi stanno in primo piano non pochi ambienti politici responsabili di paesi stranieri, che nel fascismo individuavano, con gioia, l’espressione più moderna delle forze dell’ordine; e il papato. Di fronte alla moltitudine dei cattolici dell’Italia e del mondo, fino ad allora avversi ad una dittatura nata e vivente nel sangue, il papato, accordandosi clamorosamente col fascismo, ha asservito la religione al regime.

Non v’era più dunque ragione di rivolta morale.

VI

Una trasformazione politica che seguisse il crollo del fascismo, senza essere accompagnata da una trasformazione sociale, lascerebbe i grandi problemi della democrazia italiana senza soluzione. L’Italia avrebbe, a breve scadenza, dopo un periodo di confusione e di disordine, di nuovo la guerra civile, e un fascismo n. 2 o n. 3, in camicia bianca o gialla.

La cosiddetta crisi dello stato, nella civiltà moderna, altro non è, sostanzialmente, che l’incapacità dello stato liberale a evolvere costituzionalmente e legalmente verso quelle che erano e che sono le aspirazioni socialiste del ventesimo secolo. Non si sottrarranno a questa crisi né gli Stati Uniti d’America, ove il proletariato comincia solo ora a formarsi una coscienza politica, e neppure l’Inghilterra, malgrado la psicologia essenzialmente tradizionalistica del suo popolo, e nonostante il proletariato graviti attorno ai grandi interessi dell’impero. Gli avvenimenti del dopoguerra europeo dimostrano che questa crisi è sociale, e non è suscettibile d’essere risolta con espedienti di riforme costituzionali. La grande borghesia, quella finanziaria e agraria in prima linea, non accetta di essere spodestata in omaggio alla libertà. Per quanto il fascismo sia ancora considerato da noi un fenomeno complesso, storicamente esso apparirà ben semplificato domani, e sarà esclusivamente considerato come la rivolta armata della borghesia alle rivendicazioni del lavoro. Lo stato sarà sempre in crisi finché le forze della reazione non saranno definitivamente sconfitte. Lo stato liberale, così come si è formato sulle correnti ideologiche e politiche del XVIII e XIX secolo, è destinato a sparire. In Italia, esso è finito. Esso è già scomparso. Ma questa sarà una fase di trapasso; l’essenza spirituale del liberalismo si salverà solo in una società socialista vittoriosa.

VIII

Tali obiettivi non possono essere raggiunti, né, raggiunti, potranno mai essere solidamente conquistati, se il proletariato italiano non ridiventa un’attiva e consapevole forza politica. Alla violenza squadrista e alla tirannide del regime, il proletariato ha piegato come tutti gli altri, e ha perduto, come massa, la sua coscienza di classe e la sua autonomia. Ma non può essere dimenticato che è contro il proletariato organizzato, non solo nei suoi partiti politici, ma nei sindacati, nelle camere del lavoro e nelle cooperative che il fascismo ha scatenato la sua prima e più grande offensiva, con soddisfazione larvata o palese di non pochi democratici autentici e liberali puri. La violenza fascista ha dimostrato che, caduto il proletariato come forza politica, cessano la resistenza e la lotta politica in forma collettiva: la massa abbandona la lotta, e solo la continuano individui e gruppi sporadici. Dove il proletariato è battuto, non v’è più lotta politica per la libertà e per la democrazia: esse scompaiono per rivivere solo, più profonde ma sterili, nella coscienza di pochi. Tutta l’esperienza del dopo-guerra ci ha mostrato che, contro il fascismo, non si è battuto senza quartiere, quale classe, che il proletariato: avanguardia eroica in Austria, esercito popolare in Spagna. L’avvenire della democrazia è nel suo cuore e nella sua forza. È ben per questo che le speranze degl’italiani liberi sono agitate, per la prima volta dopo vent’anni, non dalle audacie e dai sacrifizi, spesso sublimi, di singoli, ma dai recenti scioperi degli operai di Torino e di Milano. Senza proletariato, ridivenuto forza politica, vano è parlare di conquiste sociali o politiche o di democrazia italiana.

Nel giugno del 1943, alla vigilia del previsto naufragio del fascismo, Lussu pone come centrale la questione dello Stato, da ricostruire come Stato federale, popolare e socialista, con un forte coordinamento centrale per la gestione economica e sociale di quelli che oggi sono definibili “beni comuni”, nazionalizzando le grandi aziende e le banche, espropriando i grandi patrimoni. L’esito del secondo dopoguerra non sarà questo, e il regime democristiano sarà garante della “continuità dello Stato”. La questione di uno Stato realmente democratico rimarrà irrisolta.

Il controllo dal basso

Venti anni dopo, nel gennaio 1964, nello stesso mese in cui la sinistra del Psi abbandona il partito in dissenso con la linea di Nenni nel governo di centrosinistra, riorganizzandosi come Partito socialista di unità proletaria, non a caso riprendendo il nome del partito negli anni 1943-1947 (e ancora una volta è Lussu a svolgere un ruolo determinante nella scissione), Aldo Capitini sposta radicalmente il baricentro dell’azione politica verso il “basso” della piramide sociale. La sua lunga esperienza di antifascista liberalsocialista dagli anni trenta e l’esperienza dei Centri di orientamento sociale, strumenti di democrazia diretta nell’immediato dopoguerra, gli permette di affrontare la questione del potere in concrete situazioni territoriali, per costruire un «potere di tutti» ( «omnicrazia», più che democrazia) che ricostruisca dal basso la società e lo Stato in un momento di forte ripresa del movimento operaio e alla vigilia della stagione rivoluzionaria del ’68-69. Nel gennaio 1964 Capitini pubblica un nuovo mensile, «Il potere è di tutti», strumento di orientamento e organizzazione, rivolgendosi direttamente alle persone comuni della «moltitudine»; il titolo dell’editoriale del primo numero è Il controllo dal basso2. È utile rileggerlo oggi:

Il piano per arrivare ad una società che sia veramente di tutti non è ancora realizzato. Sono ancora poche le cose che tutti hanno liberamente, oltre la vita, l’aria, il sole, un corpo naturale, un cuore, una mente per pensare, una volontà per decidere. Esiste la società civile, che è una creazione storica molto importante, ma essa è ancora troppo imperfetta. Vi esiste lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’autoritarismo dell’uomo sull’uomo: alcune mani hanno ricchezze grandissime, altre mani, pur lavorando tutto il giorno, non riescono a riportare a casa (e quale casa, certe volte!) un guadagno sufficiente; alcuni hanno un potere grandissimo nel comandare, nell’imporre agli altri la loro volontà anche con la forza, e molti altri debbono raccomandarsi e ubbidire per salvare la semplice vita.

Eppure, se si guarda bene, gli sfruttati e gli oppressi sono una immensa maggioranza in confronto a quelli che hanno il potere politico ed economico. Poche persone decidono della pace e della guerra, del benessere e del disagio di tutti. E chi controlla questi pochi potentissimi? Solo i gruppi di potere; la moltitudine non è presente. Anche se viene convocata alle elezioni (una buona cosa, certamente) ogni quattro anni, ogni cinque anni, i pochi potenti non si preoccupano, durante i quattro o cinque anni, di dare informazioni esatte a tutti, di aprire scuole per chi non ha nessuna cultura, centri sociali per aiutare gli uomini a ritrovarsi insieme, a discutere e imparare l’uno dall’altro. Anzi i potenti fanno di tutto perché le persone non si trovino insieme a discutere e a criticare, se occorre; e i grandi industriali sono pronti a dare la settimana lavorativa di cinque giorni agli operai, così la sera dei cinque giorni saranno spossati e non andranno al centro sociale a parlare di politica ed istruirsi liberamente, e nei due giorni liberi scapperanno dalla città a fare i turisti o a pescare.

Per trasformare tutta la società è, dunque, necessario cambiare il metodo, e farla cominciare “dal basso” invece che dall’alto. Bisogna cominciare uno sviluppo del controllo dal basso che dovrà crescere sempre più.

Anzitutto essendo uniti. L’industria lo insegna; ma oggi anche l’agricoltura, perché si è visto che la salvezza della campagna è nelle grandi cooperative, nelle grandi aziende. Essere uniti, ma anche attivi, pronti a dedicare un po’ di tempo, un po’ di energie, un po’ di soldi, a organizzare libere associazioni, perfezionandole sempre più. E bisogna anche cercare di conoscere i fatti, di sapere come vanno le cose politiche, sociali, sindacali, amministrative. Per arrivare a questo è bene avere centri sociali, con libri, giornali, discussioni. Anzi una cosa fondamentale è riunirsi in una discussione settimanale, specialmente sui problemi della propria località. È vero: ci sono i partiti, i sindacati, le amministrazioni comunali e provinciali, il governo con i suoi ministeri; ma questo non basta, è necessario aggiungere il controllo di tutti dal basso, per criticare, approvare, stimolare, per dare elementi che quelli dell’alto non conoscono e fare proposte a cui essi non hanno pensato.

Noi vogliamo dare un aiuto per questo lavoro di controllo dal basso, favorendo la costituzione di Centri di orientamento sociale in ogni località, anche piccola, e collegandoli con questo periodico, stimolando a formare consigli di gestione nelle aziende, consigli di classe nelle scuole, consigli di assicurati nelle previdenze sociali e nelle mutue, consigli di ammalati nei sanatori e negli ospedali, là dove è possibile. Ognuno deve imparare che ha in mano una parte di potere, e sta a lui usarla bene, nel vantaggio di tutti; deve imparare che non c’è bisogno di ammazzare nessuno, ma che, cooperando o non cooperando, egli ha in mano l’arma del consenso e del dissenso. E questo potere lo ha ognuno, anche i lontani, le donne, i giovanissimi, i deboli, purché siano coraggiosi e si muovano cercando e facendo, senza farsi impressionare da chi li spaventa con il potere invece di persuaderli con la libertà e la giustizia, e l’onestà esemplare dei dirigenti.

È un errore pensare che basta che uno molto bravo (e chi lo giudica?) o un gruppo di pochi vada al potere anche con la violenza, riesca a cambiare tutto in bene. Noi non ci crediamo. Bisogna prepararci tutti al potere per il bene di tutti, cioè per la loro libertà, per il loro benessere, per il loro sviluppo.

Oggi si parla molto di “ricostruzione”. La crisi pandemica sarebbe lo spartiacque di un prima e di un dopo Covid-19, azzardando una già avvenuta conclusione dell’epidemia. Nella propaganda dei media si ripete che «niente sarà più come prima», che la crisi pandemica costituirà un’opportunità di profonda modernizzazione del sistema produttivo e di rinnovamento del sistema politico attraverso una nuova stagione di grandi progetti e imponenti investimenti. Nei prossimi mesi il quadro istituzionale ed economico si chiarirà ulteriormente, e l’attuale governo sarà messo alla prova dei fatti. Non solo di economia si tratterà, né di una politica ridotta a miope gestione amministrativa delle macerie di un paese devastato e disgregato già molto prima che lo spettro di un virus ignoto si aggirasse per il pianeta. Sì, c’è molto da ricostruire, ma sulla linea di Lussu, Capitini e tanti altri maestri di pensiero critico e azione politica rivoluzionaria, nelle tradizioni libertarie, socialiste e comuniste, costruendo potere dal basso per una società di «tutti». Un potere oggi senza governo, preparando le condizioni di una seconda fase di potere anche dal governo, in uno Stato ricostruito.

1 Testo integrale in E. Lussu, Tutte le opere, 3 voll., vol. 2 a cura di M. Brigaglia, Cagliari, ed. aísara, 2010, pp. 781-802.

2 A. Capitini, Il controllo dal basso, «Il potere è di tutti», a. I, n, 1, gennaio 1964, poi in Id., Il potere di tutti, introduzione di N. Bobbio, Firenze, La Nuova Italia, 1969, nuova ed. a cura di P. Pinna e L. Schippa, Perugia, Guerra Edizioni, 1999, e in Id., Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di L. Binni e M. Rossi, Firenze, Il Ponte Editore, 2016, pp. 353-354.

Lanfranco Binni



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