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L’imbroglio ucraino

Pubblicato da «Il Ponte», anno LXXVIII, n. 2, marzo-aprile 2022.

L’imbroglio ucraino

Lo spettacolo osceno della guerra, la ripugnante pornografia dei suoi disastri (sì, ancora Goya) che tutto distruggono, senza tempo né luogo né ragioni, travolgendo vittime e carnefici in folli danze macabre arcaiche e postmoderne, impone con la forza delle sue immagini spietate e strazianti l’orgia totalitaria dell’autodistruzione, costi quello che costi, in un tripudio di armi e propaganda. L’imbroglio ucraino, inganno, groviglio e cortocircuito di strategie economiche e militari esplicite e occulte, sempre comunque iscritte in processi storici determinati dalla logica elementare delle cause e degli effetti, riserva oggi ai territori metropolitani dell’Europa quei trattamenti che il colonialismo e l’imperialismo occidentali hanno riservato e continuano a riservare ai popoli del mondo, il cibo del potere.

In Europa non è la prima volta. La dissoluzione dell’Unione sovietica accelerò la corsa delle potenze occidentali del sedicente “mondo libero” all’accaparramento di quell’immenso mercato, di quegli immensi giacimenti di materie prime, finalmente disponibili: la fiera dell’Est, un potenziale bengodi del libero mercato occidentale e locale; liquidato il riformismo di Gorbaciov con il colpo di stato di Eltsin, si sviluppò a tappe forzate (affari, corruzione, formazione di una nuova classe dirigente oligarchica) la definitiva disgregazione dello Stato sovietico e la sua riorganizzazione su un modello di satrapia inserita nelle strategie finanziarie occidentali; un prodotto tipico di questa nuova fase è stato Putin, forte delle sue esperienze di gestione del potere in un paese di fortissima memoria sovietica (dalla rivoluzione leninista del 1917 alla “grande guerra patriottica”, agli anni della coesistenza pacifica e del sostegno ai movimenti di liberazione del “terzo mondo”), garante di stabilità e disinvolto interlocutore degli Stati uniti e dell’Unione europea, fino all’emergere di nuovi conflitti economici e politici tra il rafforzamento e il protagonismo della nuova Russia e l’unipolarismo statunitense in varie aree del mondo. Intanto l’Unione europea dal 2004 si ampliava ad est, dopo che la Nato aveva liquidato con le guerre jugoslave (1991-2001, nel 1999 il bombardamento di Belgrado) l’esperienza unitaria e interculturale della Repubblica socialista federale di Jugoslavia.

I passi successivi furono il consolidamento del fronte est dell’Unione europea e la sua militarizzazione attraverso la Nato: un processo complesso e contraddittorio, non privo di contrasti d’interesse tra l’Unione e gli Stati uniti, tra “atlantismo” ed “europeismo”, ma con un disegno strategico comune: l’accerchiamento politico-militare della Federazione russa e il contenimento del suo attivismo internazionale, concretamente pericoloso dopo l’intervento risolutivo in Siria. Nel 2014 si riaccende il fronte dell’est europeo, in Ucraina, a Kiev. Scrivevamo allora sul «Ponte»:

Dalla disintegrazione della Jugoslavia lo schema è sempre quello: si finanzia un’opposizione “democratica”, si provoca la reazione dei governi istituiti, si sostengono i “ribelli” sul campo attraverso agenti coperti (della Cia, del Mossad, dei servizi europei), attraverso martellanti campagne mediatiche (televisioni, stampa, social media), e si gestiscono i processi successivi usando tutte le risorse dei “diritti umani”, del “diritto internazionale”, della “libertà”. Quanto sta accadendo in Ucraina è da manuale: la strategia dell’ampliamento a est della Nato e dell’Unione europea, avviata negli anni novanta (dal 2006 i campi paramilitari in Polonia, di addestramento dell’opposizione “democratica” ucraina, reclutando neonazisti e criminali comuni) ha avuto una brusca, auspicata accelerazione con il rifiuto del governo legittimo ucraino di entrare nell’area d’influenza europea a condizioni capestro. La spirale manifestazioni di piazza-repressione è stata ulteriormente accelerata il 20 febbraio quando i cecchini della “libertà” hanno sparato sui manifestanti e sulla polizia. La reazione all’escalation è stata l’autodifesa della popolazione russofona da una prospettiva certa di pulizia etnica, il referendum, l’annessione della Crimea alla Federazione russa, l’annessione dell’Ucraina (per ora politica, ma il governo di Kiev è già partner della Nato) all’Unione europea. Le poste in gioco principali sono due: l’estensione dell’area d’influenza americano-europea ai confini con la Federazione russa, le risorse energetiche dell’area (gas e gasdotti, petrolio), la prospettiva di aprire nuove linee commerciali europee al gas americano. Non finisce qui: l’accordo di associazione del governo “europeista” di Kiev, con la sua milizia nazionalista e neonazista, susciterà inevitabilmente le reazioni delle regioni russofone dell’est dell’Ucraina, che già si stanno mobilitando per seguire l’esempio della Crimea. Così come la Nato sta velocemente militarizzando i paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania […]1.

 

Un maledetto imbroglio

 

Dopo il “cambio di regime” preparato e gestito dagli Stati uniti a Kiev nel 2014, otto anni di guerra “a bassa intensità” nel Donbass, con continue aggressioni dei governi di Kiev agli indipendentisti di area russofona (migliaia di morti), mentre i governi di Kiev, sistematicamente armati dalla Nato, acceleravano la configurazione legislativa di una nazione ucraina come avamposto nazionalista e guerriero dell’“occidente democratico” contro la Federazione russa: il divieto della lingua russa in tutto il territorio, l’inserimento nell’esercito regolare dei neonazisti del battaglione Azov, l’addestramento militare nelle esercitazioni Nato in Polonia, la messa al bando di undici organizzazioni politiche “filorusse”, sono stati i segni più evidenti del nuovo corso della politica ucraina, declinando in gergo atlantista ed europeista il tradizionale anticomunismo ucraino, anche a rimozione delle atroci complicità con il nazismo hitleriano durante la seconda guerra mondiale.

Con la precipitosa fuga degli Stati uniti e della Nato dall’Afghanistan e l’apertura di nuove “sfide” unipolari (la Cina come nemico principale, le materie prime della Russia, i legami politici ed economici tra Russia e Cina, il mercato europeo da riprendere sotto controllo), l’amministrazione Biden, in sostanziale continuità con il suprematismo trumpiano (America first) anche per interne necessità elettorali, ha aperto un confronto diretto sul fronte est dell’Europa, alzando i vari livelli di “tensione” sui confini della Russia con ripetute esercitazioni Nato e rafforzando l’apparato militare dell’Ucraina. La risposta della Russia è stata speculare, in un groviglio inestricabile tra “aggressori” e “aggrediti”.

L’Ucraina, una trappola per Putin? Sicuramente l’apertura nel cuore dell’Europa di una lunga guerra conclamata e destinata a durare a lungo sconvolgendo ulteriormente il crescente disordine mondiale con esiti oggi imprevedibili. Negoziati più o meno credibili e tregue militari più o meno rispettate non potranno eliminare le rotture che si sono consumate, le strategie e gli interessi in gioco, il pieno coinvolgimento dell’Europa in una spirale di guerra che può trasformare la tradizionale “deterrenza” in concreta operatività nucleare.

Questo, in Europa ed Eurasia. In altre aree del mondo, dove le guerre insistono da decenni con devastazioni spesso più gravi che oggi in Ucraina, in Europa (e anche la Russia fa parte dell’Europa), le logiche di guerra e di armamenti si dispiegano; alla Nato euro-atlantica si sono affiancate una Nato mediorientale (la “Nato araba” promossa da Stati uniti, Israele e Arabia saudita, in funzione anti-iraniana) e dal 2021 una Nato indo-pacifica, l’Aukus (Stati uniti, Gran Bretagna, Australia) in funzione anticinese. L’unipolarismo del “mondo libero” a guida statunitense sta dispiegando tutte le sue armi. Il “multipolarismo” sostenuto dalla Cina è il suo avversario tattico e strategico, la guerra fredda e calda è il suo strumento di relazione con la fase attuale del mondo, prigioniero di cambiamenti climatici fuori controllo, delle pandemie, della crisi economica e politica di un capitalismo malthusiano che distrugge e si autodistrugge, devastando popoli e l’intero pianeta. La tendenza dell’Occidente a guida statunitense è oggi alla guerra, per affrontare i cambiamenti climatici ei loro effetti collaterali con la corsa alle materie prime, per gestire le crisi economiche con lo sviluppo dell’industria fondamentale degli Stati uniti, l’industria militare e lo spaccio di armamenti; le guerre per procura, come la guerra attuale contro la Russia, sono i corollari di questa strategia imperiale in un paese senza storia, fondato sul colonialismo di insediamento, sul capitalismo selvaggio e l’anticomunismo viscerale (meglio morti che rossi), con la costante delle guerre contro il nemico di turno, con qualsiasi pretesto.

 

«L’Italia ripudia la guerra», il governo no

 

In Europa, atlantismo ed europeismo sono oggi più che mai inconciliabili. Il vortice della guerra speculare tra Stati uniti e Russia minaccia di travolgere ogni prospettiva di tenuta e sviluppo dell’area europea, compromettendo economie e assetti statuali. Un’economia di guerra, fisiologica e produttiva per gli Stati uniti, è per l’area europea insostenibile. Le sanzioni di guerra economica alla Russia già cominciano a riversare i loro effetti disastrosi sulle condizioni di vita di molti paesi (inflazione, recessione, impoverimento, blocco dei tentativi di transizione ecologica contro i cambiamenti climatici). In queste condizioni ogni schizofrenica pulsione di guerra, “atlantista” ed “europeista”, sia pure per procura (armando l’Ucraina per “spezzare le reni” alla Russia) è velleitaria e suicida.

In Italia, un governo di “unità nazionale” oggi allargato all’opposizione di estrema destra fascista si sta avventurando nei disastri della guerra, in totale servilismo nei confronti degli Stati uniti e della Nato; l’informazione bellicista e militarista dei media di regime è in prima linea nella manipolazione dell’opinione pubblica per piegarla alle pretese “ragioni” della guerra. Un maccartismo da pezzenti criminalizza il ripudio costituzionale della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. L’aumento delle spese militari per la Nato sostenuto dall’eterogeneo partito della guerra (il Pd in prima fila), le farneticazioni di una difesa comune europea trainata dal pericoloso riarmo tedesco, i sogni di “crescita” economica nella produzione di armamenti (Leonardo, F35 e affini), stanno schierando la colonia americana nello scacchiere di guerra. Ma non è questa la sensibilità di una grande maggioranza della popolazione, relegata ai margini di un sistema politico delegittimato.

L’alternativa alla guerra è non fare la guerra. E la pace non è la semplice assenza di guerra, è abolizione delle sue cause, delle sue arcaiche e irrazionali pulsioni. Mentre il sistema politico italiano da molti anni è in una fase di implosione della democrazia liberale, una fase di salutare isolamento del potere oligarchico, politico ed economico dai veri interessi della popolazione, la questione della guerra è strettamente legata alla questione del potere.

La «democrazia» è il potere di tutti, l’«oligarchia» è il potere di pochi. Il fallimento del liberismo porta via con sé il liberalismo, l’ideologia liberal-proprietaria che nell’Ottocento e nel Novecento, in Occidente, ha espresso gli interessi delle classi dominanti, a protezione dei rapporti di produzione e di proprietà, e che oggi resta l’ultima copertura di un capitalismo arcaico, malthusiano, è in crisi. La democrazia come «potere di tutti», è un processo rivoluzionario di costruzione di esperienze di contropotere, dal basso, preparando le soggettività del cambiamento all’esercizio di un nuovo potere fondato su esperienze di democrazia diretta e delegata con controlli dal basso. Non si tratta di sostituire una classe dirigente «democratica» a una classe dirigente oligarchica, lasciando intatta l’organizzazione della società, i suoi attuali rapporti di produzione e di proprietà. Si tratta di rovesciare la piramide sociale, forti delle esperienze storiche dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo, costruendo reti sociali di progettazione e di azione politica in una prospettiva di «massimo socialismo e massima libertà», costruendo potere di resistenza, opposizione e insorgenza, per la liberazione del «potere di tutti». Per molti aspetti si tratta anche di riprendere percorsi interrotti e rimossi dalla sinistra di sistema, quella “sinistra” di cui Luigi Pintor aveva decretato la morte già negli anni novanta e che oggi fa da ruota di scorta a un sistema politico ed economico irriformabile. Ma è questo il terreno fecondo di tante esperienze in corso da molti anni: dalle reti sociali sulle tematiche dei «beni comuni» e dell’ambientalismo sociale, alle esperienze di cooperazione tra associazionismo ed enti locali, alle reti di insegnanti e studenti impegnaci nella difesa della scuola pubblica, al sindacalismo attivo nei luoghi di lavoro, alle pratiche interculturali e di accoglienza dei migranti, e il quadro, nelle sue positive diversità, è aperto e in divenire. La creazione di relazioni sociali di tipo nuovo, orizzontali e partendo dal basso, dalle periferie, dagli anti locali, fondate sulle persone attive come «centri» di un potere di tutti costruito nelle situazioni concrete, sulla conoscenza, la critica e l’informazione, sul controllo e la disarticolazione delle catene di comando oligarchiche, libera potenzialità umane e prepara la libera autonomia di “tutti”, per una realtà che è comunque e sempre di tutti, per un socialismo di tipo nuovo, responsabile delle sue esperienze storiche e apertamente internazionalista.

 

Il rifiuto della guerra

 

Nell’estate del 1968 Aldo Capitini, a pochi mesi dalla morte, sintetizzò in Omnicrazia: il potere di tutti2 la sua lunga esperienza di teorico e organizzatore della rivoluzione nonviolenta e dell’omnicrazia (più che democrazia, socialismo libertario). Uno dei paragrafi era intitolato Il rifiuto della guerra; lo riportiamo integralmente, per la nostra igiene mentale:

Una prova della difficoltà o impossibilità da parte del riformismo e dell’autoritarismo di formare il “nuovo uomo” è nel fatto che l’uno e l’altro sono disposti ad usare lo strumento guerra. Si sa che cosa significa, oggi specialmente, la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage di innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso. Tanta è la forza spietata che la decisione bellica mette in moto, che essa viene ad assomigliare ad una delle terribili manifestazioni della “natura”, le più assurde e crudeli e spietate, e certamente ora le supera in numero di vittime. È difficile pensare che la natura possa distruggere in pochi minuti tante persone quante ne distrusse la bomba atomica a Hiroshima, riducendone alcune a una semplice traccia segnata sul muro. E quella bomba era di forza molto modesta rispetto alle bombe attuali.

Il rifiuto della guerra è perciò la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso, e se vediamo l’antitesi tra la natura come forza e la compresenza come unità amore, è chiaro che la guerra aggrava la natura, la sorpassa nella sua distruttività, nella sua spietatezza rispetto ai singoli esseri, alla cui attenzione la compresenza richiama costantemente.

L’indipendenza dalle istituzioni che possono preparare ed eseguire la guerra è garantita dalla posizione di apertura alla compresenza. A poco a poco la tendenza rivoluzionaria verrà a schierarsi da questa parte. Vi sarà tuttavia un momento intermedio, che è quello della guerriglia. Ma c’è guerriglia e guerriglia. Quella che si appoggia a Stati fornitori di armi e protettori, con ulteriori e massime minacce ai repressori della guerriglia; ma in tal modo la guerriglia non è che una manifestazione o pre-manifestazione della guerra, il suo surrogato in alcune zone, come gruppi di assalto o di rottura, senza che si realizzi un superamento della guerra e dei suoi inconvenienti detti sopra. O la guerriglia non si appoggia a nessuna potenza e a nessuna industria, e non si vede come possa – a parte il suo valore come espressione di rivolta, di sacrificio, di eroismo – avere probabilità di modificare una situazione dominata da un potere fornito di mezzi moderni di strage.

La ragione del pacifismo integrale non è soltanto il fatto evidente che la guerra, una volta accettata, conduce a tali delitti e a tali stragi, specialmente oggi, che è assurdo presumere di farla e contenerla; ma è la vita della compresenza che si sceglie, il suo accertamento, la sua costruzione, la sua celebrazione quotidiana. Mentre si lavora per migliorare continuamente il rapporto di comprensione e di sacrificio verso ogni essere, non si può interrompere tale lavoro e mutare l’apertura in chiusura.

Ma c’è anche una ragione di carattere organizzativo. È chiaro che bisogna arrivare a moltitudini che rifiutino la guerra, che blocchino con le tecniche nonviolente il potere che voglia imporre la guerra. L’Europa ha sofferto per non aver avuto queste moltitudini di dissidenza assoluta, per es. riguardo al potere dei fascisti e dei nazisti. L’omnicrazia deve prender corpo anche in questo modo: nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti; ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo. Se davanti alle forze della Natura non ci si è mossi con il programma che la lotta e la loro utilizzazione fosse per tutti, «fra sé confederati» diceva il Leopardi, si è persa la tensione a trovare il punto della trasformazione della Natura al servizio di tutti, come singoli: chi dà la morte, non può rimproverare la Natura di preparare la nostra morte. Questo collaudo è necessario, perché tutte le volte che gli individui si accontentassero di ottenere qualche cosa nell’ambito della Natura, dello Stato, dell’Impresa, perderebbero l’acquistato se travolti dalla guerra. Se nello Stato la lotta contro il potere assoluto ha ottenuto il regime parlamentare, tuttavia è rimasta la guerra a impedire un ulteriore sviluppo democratico. Se nell’Impresa i lavoratori sono riusciti a progredire e perfino ad imporre le socializzazioni, poi la guerra, e la sua preparazione, li ha messi alla mercè di un potere autoritario, tutt’altro che omnicratico.

Omnicrazia come nuovo socialismo, compresenza come metodo di attraversamento della complessità, di trasformazione rivoluzionaria, nonviolenta, della “realtà di tutti”.

 
 

1 L. Binni, I cecchini della libertà, «Il Ponte», anno LXX, n. 4, aprile 2014, poi in Id., Rosso di sera. Scritti per «Il Ponte» 2011-2019, Firenze, Il Ponte Editore, 2019.

2 A. Capitini, Il potere di tutti, Firenze, La Nuova Italia, 1969, poi in Id., Attraverso due terzi del secolo. Omnicrazia: il potere di tutti, a cura di L. Binni e M. Rossi, Firenze, Il Ponte Editore, 2016, e in Id. Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, stessi curatori, Firenze 2016.

Lanfranco Binni



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