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Il conte di Montecristo

Romanzo di ventura, scorribanda eccentrica e originale tra linguaggi, tradizioni, situazioni e culture, sullo sfondo della Francia contemporanea e di un passato recente e ancora sensibile, Il conte di Montecristo è l’applicazione complessa di una poetica e di un metodo di attraversamento e metamorfosi del reale che Dumas ha sviluppato nel corso degli anni.
Nel 1843 gli editori Béthune e Plon propongono al Dumas autore di numerose e fortunate impressions de voyage una sorta di guida di Parigi, nella formula del viaggio d’autore nel quale si incontrano luoghi, aneddoti, informazioni storiche, impressioni personali. Béthune è soprattutto impressionato dall’enorme successo dei Mystères de Paris (Misteri di Parigi) di Sue, pubblicato in forma di feuilleton dal «Journal des Débats» tra 1842 e 1843. In pochi giorni Dumas trasforma la proposta iniziale della guida nella prima idea di un romanzo che, ambientato nella Parigi contemporanea, ne scavi le dinamiche più nascoste, sui confini tra realtà e immaginazione. Riemergono allora le suggestioni di Crimes célèbres (Delitti celebri), certe letture di fatti di cronaca, in particolare le pagine di un archivista della prefettura, Jacques Peuchet, autore di Mémoires historiques tirée des archives de la police de Paris (Memorie storiche tratte dagli archivi della polizia di Parigi). Dei mémoires di Peuchet una storia soprattutto ha colpito l’immaginazione di Dumas: quella, raccontata nel capitolo Le Diamant et la Vengeance (Il diamante e la vendetta), di un giovane operaio, François Picaud, che alla vigilia di un felice matrimonio viene denunciato da un amico invidioso come agente degli inglesi; in carcere dal 1807 al 1814, si trova in cella con un ricco prelato milanese che, morendo, lo lascia erede di un tesoro nascosto a Milano. Alla caduta dell’Impero Picaud viene liberato, recupera il tesoro e, ricchissimo, torna a Parigi per vendicarsi; al termine di una spirale di delitti, sarà ucciso lui stesso. Quest’intreccio elementare, che Dumas definirà nel 1857 “perla informe, perla grezza, perla senza alcun valore”, innesca l’elaborazione di un intreccio più complesso, inserendo il tema di una clamorosa ingiustizia e della sua vendetta in un quadro storico decisamente contemporaneo, la Francia della monarchia costituzionale di Louis-Philippe con il suo retroterra tra Impero e Restaurazione, e soprattutto facendo confluire sul protagonista, di condizione sociale umile come François Picaud, le connotazioni dell’eroe romantico in conflitto con il potere; nel nuovo ordine di Louis-Philippe i tre responsabili dell’ingiustizia subita da Edmond Dantès diventano i potenti rappresentanti di una società fondata sul denaro e sul crimine: Moncerf ovvero il potere militare, Danglars, il potere finanziario, Villefort, il potere giudiziario. Questo scenario sociale, che in questo stesso periodo Balzac continua a rappresentare sui percorsi della Comédie Humaine, si incontra in Dumas con altre dimensioni personali e culturali. Nel tema della vittima di una grande ingiustizia del potere confluisce la vicenda del padre di Dumas, abbandonato per odio politico nelle carceri del regno di Napoli e convinto di essere stato avvelenato. Nel tema della rivolta contro l’ingiustizia confluisce la vicenda di Georges, l’eroe mulatto che, come Dumas, sfida il razzismo della Parigi degli anni ’20. Nel laboratorio progettuale del nuovo romanzo confluiscono inoltre altre narrazioni e ascendenze culturali: da un punto di vista strettamente narrativo, il romanzo storico di Walter Scott, su un piano più filosofico la cultura illuminista con i suoi riferimenti di confronto nella cultura greco-romana, nella tradizione biblica e nel grande impianto gnoseologico della Divina Commedia di Dante. L’abbondare di citazioni colte nel Conte di Montecristo porterà il segno di una costante tendenza all’apertura, alla polifonia, all’ulteriore complessità del congegno narrativo. Così come l’orientalismo, che fa del conte di Montecristo un nuovo personaggio delle Lettres persanes di Montesquieu nella Parigi degli anni ’30, non è un semplice omaggio all’esotismo delle Mille e una notte ma propone piuttosto un messaggio sapientemente relativista sui tempi a venire. Insomma, Dumas intende operare, nel suo nuovo romanzo, un doppio simultaneo movimento: in verticale, nelle dinamiche interne alla società francese del suo tempo, e in orizzontale, nell’apertura senza limiti a ogni suggestione culturale e gnoseologica.
Lo strumento principale per avvincere chi legge in un percorso complesso e a più dimensioni gli viene dal teatro; ha già sperimentato con successo la contaminazione tra linguaggio teatrale e linguaggio narrativo, ma è nel nuovo romanzo che, sfruttando ancora più consapevolmente i vincoli del feuilleton, imprimerà alla narrazione il ritmo, l’assertività, i colpi di scena, gli scarti tra piani di realtà, dell’azione teatrale. Si potrà giungere a parlare di melodramma per Il conte di Montecristo.
Al progetto dell’opera contribuisce Auguste Maquet, già collaboratore di Dumas dal 1841; è lui a suggerire l’espansione della prima parte sulla prigionia di Dantès e sulla figura di Faria, questo nuovo Virgilio che guiderà Dantès nell’inferno contemporaneo. Con la solita celerità, la fabbrica di Dumas e Maquet, cha ha appena dato una prova eccellente con i Trois Mousquetaires, inizia a sfornare una puntata dopo l’altra, sullo stesso quotidiano che ha pubblicato nel 1843 Les Mystères de Paris di Sue, «Le Journal des Débats». Stesso pubblico, vasto e articolato, un successo ancora maggiore. L’evasione di Dantès dal castello d’If è un grande evento nazionale, l’affermazione della sua rivolta contro una Storia infame e una società fondata sul crimine suscita speranze di rivalsa in una Francia inquieta, alla vigilia della rottura rivoluzionaria del 1848. Dantès è un uomo contro, la sua vendetta assume facilmente connotazioni politiche attuali; l’azione si svolge tra il 1814 e il 1838, dal tentativo finale di Napoleone alla Restaurazione, all’involuzione della Rivoluzione del 1830, ripercorrendo le tensioni e i conflitti di una Storia sempre più degradata a questione privata di pochi profittatori: la società è una squallida commedia, i suoi figuranti di potere recitano ruoli miserabili o inconsapevolmente convenzionali. Eppure il meccanismo è fragile e può essere disgregato dall’interno, con perfida sapienza, con tenace autonomia, ritorcendogli contro i suoi stessi ingranaggi. Clandestino a questa società, forte del suo lucido disegno, il prigioniero politico Edmond Dantès gioca tutti i ruoli possibili, assume maschere diverse, interviene “in situazione”, imprime un corso diverso alla realtà data. Non si limita a opporre la propria purezza di eroe romantico al fango della Storia, ma ne colpisce segretamente e con puntuale efficacia le dinamiche di potere; a quel potere sociale oppone il proprio potere individuale, disperatamente consapevole, dolente e terribile, fino all’estrema constatazione della sostanziale vanità di un’opera immensa e onnipotente di giustizia e distruzione. Al Dantès che si sarà pienamente vendicato rimarrà l’amara constatazione dei limiti di una condizione umana prigioniera; la vera liberazione è sempre oltre, altrove. È questo il messaggio finale dell’opera, mentre Montecristo si allontana in mare aperto, verso Oriente. E l’“attendere e sperare” che prima di partire ha consegnato come linea di condotta a Valentine e a Maximilien non è, come spesso si è creduto, una contraddittoria inversione cristiana di un percorso radicalmente diverso: significa saper attendere e sperare, sapersi prendere il tempo della liberazione della condizione umana dai suoi limiti, è un messaggio a venire.
Nel Conte di Montecristo la scrittura è straordinariamente coerente con la poetica di Dumas: il mito del confronto attivo e tenace con la realtà data, con un paesaggio di maschere, con le vicende individuali, vive nel turbinio dei linguaggi, nell’esuberante necessità di moltiplicare il gioco dei punti di vista, dei punti di fuga, dei riferimenti culturali. Il romanzo diventa un luogo d’incontro di voci, asserzioni, riflessioni, di realtà e immaginario, in cui si compone, con chi legge e in chi legge, un inesauribile caleidoscopio polifonico, uno spettacolo multidimensionale che non perde mai la centralità del suo progetto interno. In questo appassionato gioco narrativo in cui tutto si tiene e tutto si apre consiste la chiave della sua efficacia e della sua fortuna di classico, di archetipo, destinato a coinvolgere la sensibilità e l’intelligenza dei suoi lettori oltre i limiti delle generazioni.

(dall’introduzione ad Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione, introduzione e note di Lanfranco Binni, Milano, Garzanti, 2011)


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