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Pubblicato da «Il Ponte», n. 7, luglio 2014.

George Grosz

C’è qualcosa di serio in quanto sta accadendo in questo paese dietro il polverone “riformistico” sollevato a uso domestico dal piazzista di Pontassieve, ed è l’asservimento italico all’accordo segreto euro-americano del Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti.

L’offensiva liberista internazionale scatenata nel 2008 contro la spesa pubblica e i programmi sociali degli Stati nazionali è in fase di accelerazione. «La posta in gioco» – scrive Serge Halimi nel numero di giugno di «Le Monde diplomatique» – «è al tempo stesso piú ampia e piú ambiziosa: riguarda i nuovi privilegi rivendicati dagli investitori di tutti i paesi, magari come risarcimento per una crisi economica che essi stessi hanno provocato». E riguarda l’assetto geopolitico del mondo, da ridisegnare al servizio delle multinazionali. La risposta alla crisi finanziaria del 2008 è l’accelerazione delle dinamiche che l’hanno determinata, e il Partenariato transatlantico euro-americano ne costituisce lo strumento “legale”, il timone delle politiche statuali sulla base di un nuovo diritto internazionale da imporre con le armi di ogni genere e su qualunque terreno. Con l’obiettivo strategico dell’internazionalizzazione del «libero mercato», in concorrenza diretta con la Cina e con il nuovo asse Mosca-Pechino che si va delineando. Il recente viaggio di Renzi in Vietnam, in un momento di tensione tra Vietnam e Cina per ragioni territoriali (ed energetiche), rientra in questo quadro in movimento.

Il Ttip ha avuto una lunga preparazione, avviata nel 1990 con l’istituzione di vertici annuali tra Unione europea e Stati Uniti per promuovere il libero scambio. Nel 1995 venne istituito il Trans-Atlantic Business Dialogue (Tabd), su iniziativa della Commissione europea e del ministero del Commercio statunitense, per difendere e sviluppare gli interessi delle multinazionali sui due lati dell’Atlantico. Sono seguiti, nel corso degli anni, fino all’ultimo ciclo di negoziati ad Arlington (Virginia) nel maggio 2014, accordi sempre piú specifici e stringenti per la riduzione e la progressiva eliminazione di tutte le «barriere convenzionali» al commercio transatlantico. I negoziati dovrebbero concludersi nel 2015, con una successiva fase di ratifica di un trattato internazionale vincolante per gli Stati dell’Unione europea e per gli Stati Uniti. Si creerà cosí un mercato unitario con oltre 800 milioni di consumatori, gestito direttamente dalle multinazionali e dalle grandi imprese. «Gli obblighi dell’accordo» – recita l’articolo 4 del Ttip – «saranno vincolanti a tutti i livelli di governo», e comporteranno l’allineamento (pena sanzioni finanziarie) degli Stati e di tutte le collettività pubbliche (Regioni, Dipartimenti, Comuni). Perdita della sovranità nazionale, privatizzazione di beni e servizi pubblici, riduzione della spesa sociale, aumento della disoccupazione, restrizione dei diritti dei lavoratori, flessibilità nei rapporti di lavoro, precarizzazione, saranno i corollari dell’apoteosi del libero scambio.

Questo il disegno, finalizzato anche ad affrontare la prossima crisi finanziaria internazionale con la stessa strategia che ha prodotto la crisi del 2008, ma con una nuova aggressività e una sempre maggiore concentrazione dei poteri (economico-finanziario, politico e militare). Naturalmente alle azioni corrispondono sempre reazioni, e i processi non sono mai lineari.

Qual è il ruolo dell’Italia in questo scenario? Per gli strateghi euro-americani è importante che il tradizionale presidio del confine meridionale dell’Europa, la portaerei del Mediterraneo, continui a svolgere la sua funzione di base attiva della Nato (con la sua scorta di bombe atomiche custodite nelle basi americane, e sono bombardieri gli F35), con nuove garanzie politiche di sicurezza e stabilità che risolvano definitivamente la questione dell’anomalia italiana. Serve un paese “normalizzato”, politicamente indebolito, commissariato. Il ventennio berlusconiano, i continui cedimenti di una sinistra che era già morta nel 1998 – come scrisse Luigi Pintor nel suo ultimo editoriale per «il manifesto» -, il governo euro-tecnico di Monti, il governo delle larghe intese di Letta, l’attuale governo Napolitano-Renzi-Berlusconi, hanno corrotto in profondità l’assetto costituzionale dello Stato di diritto. L’allontanamento dei cittadini dallo spettacolo miserabile di una politica al servizio dei poteri economici e finanziari è un obiettivo perseguito con determinazione. Serve una società “ristretta”, separata, in grado di esercitare funzioni di comando e di imporre scelte non negoziabili a tutto il resto della popolazione. La democrazia? Retorica. Il controllo sui poteri? Da ridurre drasticamente. La Costituzione del 1948? Da manomettere, da adattare alle esigenze dell’impresa e del mercato. La scuola pubblica, l’università? Da devastare. E soprattutto fare in fretta, correre, creare situazioni di non ritorno.

La democrazia non è mai piaciuta molto alla maggioranza degli italiani, e le pratiche realmente democratiche sono state esigue nella «storia dolente» (l’espressione è di Capitini, in un articolo del 1946) di questo paese. La mutazione antropologica in corso (da cittadini a consumatori), accelerata dal liberismo dilagato a sinistra, produce apatia e analfabetismo, dipendenza e asservimento. Amano anche essere imbrogliati, gli italiani. Se uno che fa il capo, con una corte di servi che lo applaude, dice di aver visto volare un asino, in molti ci credono. Se poi uno che fa la parte del capo ti allunga 80 euro di denaro pubblico per qualche mese (altro che la conquista socialista delle 8 ore!) in cambio del tuo voto, il consenso è assicurato. Non importa se quegli 80 euro li ripagherai tutti e molto cari: almeno ti ha «messo in tasca» qualcosa da «portare a casa». E poi quegli 80 euro li ha dati proprio a te, mica a tutti.

Il Pd, il «partito nazionale» di Renzi, dice di aver stravinto le elezioni europee: 40,8%. I media fanno il loro sporco mestiere e battono la grancassa: 40,8… 40,8… Poche voci isolate ricordano che quel 40,8% è da valutare rispetto al numero degli aventi diritto al voto, e che alle europee non ha votato il 41.32%: in realtà ha vinto chi non è andato a votare. Ma non importa: il Pd ha stravinto e si è creato un immediato cortocircuito tra elezioni europee ed elezioni politiche, e il «voto popolare» ha «legittimato» Renzi. Ora può fare tutto. Chi non è andato a votare ha perso il posto all’osteria.

Eppure … lo spettacolo miserabile del ghetto politico, tutto giocato sullo schermo televisivo (lo spazio «democratico» somministrato agli «italiani»), produce certamente assuefazione e corruzione di coscienze ma è anche il segno dell’isolamento corporativo di un ceto degradato e colluso con il malaffare locale e internazionale. C’è sempre stata un’altra Italia, storicamente minoritaria, consapevole e responsabile, l’Italia della Costituzione inattuata, dei diritti non negoziabili, delle conquiste sociali. L’Italia che ha l’esperienza del socialismo, del comunismo eretico, dell’antifascismo, della Resistenza, delle lotte operaie e studentesche degli anni sessanta-settanta, che ha il senso della Storia. L’Italia delle molteplici esperienze di sperimentazione e costruzione della democrazia dal basso, del confronto di genere in una società maschile da mettere in discussione, del confronto tra generazioni e «genti», delle pratiche egualitarie, delle battaglie ambientali. Quest’altra Italia, ben presente e viva, non trova rappresentazione nei media, non può trovarla, ma costituisce un vero e proprio movimento carsico, uno spazio politico immenso, tra i senza voce, tra i cittadini comuni, tra le vittime del sistema politico e finanziario, nella stessa opposizione parlamentare, negli enti locali. I bombardamenti economici del «libero mercato» e le sue avventure geopolitiche confliggeranno inevitabilmente con gli imbrogli di potere e la cruda realtà della guerra, proseguimento «senza confini» dell’economia e della politica.

Ironia della Storia: nelle recenti elezioni amministrative del 25 maggio, due città-simbolo storicamente amministrate dalla sinistra e poi dal Pd, Livorno e Perugia, hanno “cambiato verso”: Livorno, la città in cui fu fondato il Pci nel 1921, ha eletto un sindaco del M5S; Perugia, città da cui era partita la marcia su Roma dei fascisti nel 1922, ha eletto un sindaco di Forza Italia. La Storia non ammette semplificazioni e vive di percorsi sotterranei, non sempre visibili.

LANFRANCO BINNI



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