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Caro Maurizio
Pubblicato da «micropolis», periodico umbro allegato al «manifesto», 27 luglio 2015. In colloquio con Maurizio Mori, morto il 15 giugno.

«Salutami tutti»: le tue ultime parole, pronunciate per telefono con lucida energia, mentale e di tono, nonostante la sofferenza («Come va?», «Male»). Era la mattina di sabato 13 giugno. Due giorni dopo mi chiamava Sandra per dirmi che dall’ospedale ti eri fatto riportare a casa, in Viale Pellini, e poco dopo te ne eri andato. Il tuo ultimo messaggio, anche questo un saluto a «tutti», lo hai poi affidato al video dell’intervista («vivere la morte») proiettato il 20 giugno nella cappella del crematorio di Perugia, sopra la bara circondata da parenti, amici e compagni. Il 20 giugno, data fondamentale nella storia di Perugia: l’insurrezione del 1859 contro gli sbirri (svizzeri-tedeschi) del papa, la liberazione della città nel 1944 dai fascisti e dai tedeschi del «nazionalsocialista» Hitler. Il 20 giugno 2015, quando ci hai parlato con serena consapevolezza del senso della tua vita, della morte come esperienza da vivere a occhi aperti, nel pieno delle proprie facoltà e non devastati dalla rovina del corpo, al cimitero intorno e accanto a te erano tante e diverse le vite e le esperienze: ancora una volta, quella complessità alla quale sempre avevi guardato con curiosità e serietà, con affetto e indignata presenza, contro i crimini della Storia, contro la servitù volontaria, contro «questa sporca società». La vita quotidiana e la politica, il dettaglio personale e il tutto generale, il vicino e il lontano, il presente e il passato, le loro connessioni, facevano coerentemente parte della tua apertura rigorosa al mondo, su una linea internazionalista e socialista mai messa in dubbio nelle sue ragioni di fondo, continuamente ripensata e rielaborata nelle sue nuove condizioni, analizzata nelle sue trasformazioni.
Ci eravamo incontrati alla «marcia per la pace e la fratellanza dei popoli Perugia-Assisi» del 1961, sotto cartelli di sostegno ai movimenti di liberazione (Algeria, Angola… ), e per noi (ma anche per Capitini) la pace non era generico pacifismo ma lotta contro il colonialismo, contro l’imperialismo, contro lo stalinismo speculare al capitalismo; il dilemma luxemburghiano «socialismo o barbarie» aveva guidato le tue scelte politiche, dal Psiup degli anni ’44-’47 alla quarta internazionale. Dopo pochi anni avremmo seguito i percorsi della «nuova sinistra», tu con Medicina democratica, il Manifesto, il Pdup… e io, più giovane di te di una ventina d’anni, sugli ardui percorsi delle organizzazioni marxiste-leniniste, la Comune di Dario Fo, il Soccorso Rosso Militante, negli anni del terrorismo di Stato e delle esperienze di contropotere nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole.
Ci siamo ritrovati dopo molti anni, dopo la morte di mio padre nel 1997. Siccome i morti crescono, quando mi sono reso conto di non aver conosciuto veramente il percorso politico di mio padre e di aver rimosso con colpevole fretta giovanile le esperienze rivoluzionarie di Capitini, è con te che ho potuto ricostruire gli anni dell’antifascismo a Perugia (e da Perugia sulle reti «liberalsocialiste»), gli anni della resistenza, dell’immediato dopoguerra e della restaurazione. Eri un testimone prezioso, per me il più importante, di quella stagione. Più che un testimone: ti consideravi allievo dell’«intransigenza» socialista e rivoluzionaria di Binni (aveva una decina d’anni più di te), avevi partecipato alle esperienze di democrazia diretta dei Centri di Orientamento Sociale di Capitini tra 1944 e 1946. Mi raccontavi dei comizi per le prime elezioni comunali, quando il Psiup fu il primo partito a Perugia, della campagna per il referendum monarchia/repubblica e per l’Assemblea costituente (dove Binni fu eletto nel 1946), dei conflitti con i «socialproprietari» (i liberali) e i «socialmassoni» all’interno del Psiup. Andavate in giro per l’Umbria, con una vecchia balilla, a organizzare il partito: facendo comizi la domenica mattina davanti alle chiese, per intercettare la gente all’uscita dalla messa, e capitava che il prete vi invitasse a pranzo. Come a Montone nell’autunno del ’44, dove ci siamo fermati alla fine di aprile di quest’anno, tu, Salvatore Lo Leggio e io, dopo essere stati a Pietralunga a parlare con l’unico sopravvissuto della Brigata proletaria d’urto S. Faustino, Inno Ruggeri, per cercare invano nella sua memoria tracce di Bruno Enei, allievo di Capitini e maestro di Riccardo Tenerini e Primo Ciabatti a Gubbio, amico di Binni, comandante di uno dei quattro battaglioni della S. Faustino, redattore e poi direttore del «Corriere di Perugia», il giornale del CLN della provincia di Perugia. Credo che sia stata la tua ultima «gita» nella campagna perugina. Forse si chiudeva un cerchio.
Continuerò a vedermi con te, non solo per concludere il libro che abbiamo progettato insieme su Bruno Enei, rimosso dalla città per odio politico, come fu cacciato Capitini nel 1946, come si tentò di cacciare mio padre nello stesso anno e fu salvato dall’elezione alla Costituente e poi da un concorso universitario vinto nel 1948, come tu stesso fosti a lungo considerato - dalla «sinistra» stalinista e liberalproprietaria - un «provocatore», per le tue posizioni intransigenti di rivoluzionario trotzkista e poi della «nuova sinistra». Continuerò a incontrarmi con te, in «colloquio», per capire insieme «come va a finire» questa Storia. In occidente la barbarie sta imperversando, l’Europa uncinata sta spezzando le reni alla Grecia, l’oligarchico sistema politico italiano sta implodendo: semplicemente, vengono a nudo, senza mediazioni «democratiche», le dinamiche di fondo del capitalismo senile, che crepi. La specie umana saprà difendersi, costruendo scenari diversi sull’onda lunga di un socialismo libertario capace di stabilire sempre nuove connessioni tra passato e avvenire. Mi mancheranno il tuo sorriso ironico, la trasparenza dei tuoi occhi, la tua postura orgogliosamente e consapevolmente eretta. «Tutti» salutano te. Ben scavato, vecchia talpa.
Ah, dimenticavo. Sulla collina toscana dove abito, alcuni anni fa avevo costruito su un vecchio pero, possente, con quattro braccia, una piattaforma, con sopra un tavolino e una sedia; naturalmente c’è una scala per salire e scendere. Durante l’ultimo inverno il vecchio pero è morto. Mi sono consultato con lui e con gli uccellini che lo vivono come luogo di sosta e di passaggio. Abbiamo deciso di dargli una nuova vita. Ora è dipinto di blu. Dedicato a te.


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